È vero che sbagliare è umano, ma quando si tratta di errori commessi nell’ambito della comunicazione, il prezzo da pagare è molto caro.
Quando una pubblicità può essere definita epic fail
Una pubblicità a cui viene associato il termine epic fail, non è semplicemente una pubblicità che ha fallito nel raggiungere i risultati sperati, ma è una pubblicità che ha prodotto un effetto catastrofico rispetto a quanto atteso. A volte, con un semplice tasto INVIO, si mandano in fumo mesi e mesi di preparazione, analisi, studio e strategia. Quella che poteva sembrare l’idea del secolo, all’improvviso, diventa il peggiore incubo di un brand.
In questo articolo abbiamo raccolto 3 epic fail pubblicitari che sono, purtroppo, diventati memorabili per la catastrofe mediatica che hanno provocato.
I 3 casi che approfondiremo:
Il caso Dolce e Gabbana
Il caso di epic fail di cui ora vi parleremo, ha quasi portato Dolce e Gabbana a sfiorare l’incidente diplomatico con la Cina. Ma che cosa è successo?
Nel 2018, alla vigilia di un evento mondano a Shangai, la nota maison di moda milanese inizia a pubblicare sui propri profili social una serie di video promozionali. Il contenuto dei vari video, però, non ritrae il classico backstage della sfilata oppure un’anteprima degli abiti, ma una giovane donna cinese intenta a consumare dei piatti tipicamente italiani con delle bacchette. La protagonista mostra difficoltà in diverse scene ed è presente un’allusiva voce maschile fuori campo che accompagna il siparietto.
Qual è stato il risultato?
Il messaggio che la maison di moda aveva studiato, era in linea con il tema previsto nella sfilata dei prossimi giorni, ovvero “Dolce e Gabbana ama la Cina“. Questi video, però, non sono piaciuti affatto e il pubblico cinese li ha reputati come offensivi. Il risultato è stato catastrofico, non hanno tardato ad arrivare accuse di sessismo, razzismo e stereotipizzazione. Le reazioni della popolazione cinese sono state disparate: chi ha escluso la maison milanese dalle principali piattaforme e-commerce; chi ha condiviso video in cui utilizza l’abbigliamento griffato per pulire casa e così via.
Il malumore sbarca anche in Occidente, quando sui social network Facebook, Twitter e Instagram, spuntano massivamente delle conversazioni private dello stilista Stefano Gabbana. Queste conversazioni riportano parole offensive scritte sotto il nome dello stesso stilista e sono rivolte alla popolazione cinese. Ormai il danno è irreparabile, Dolce e Gabbana è sotto il mirino di tutto il mondo.
Si tenta di gestire la crisi con alcune mosse ormai ritenute inverosimili, come la dichiarazioni dello stilista Gabbana “mi hanno hackerato i profili social”. Nessuno ci crede, anzi, la polemica aumenta fino a giungere ad un punto di non ritorno. I due stilisti, o chi per loro, decidono di metterci la faccia e scusarsi pubblicamente con un video.
Cosa è andato storto?
Le logiche comunicative non sono universali, non si possono utilizzare gli stessi standard pubblicitari e concettuali per paesi con diverse usanze, abitudini e culture. L’incidente diplomatico, quasi sfiorato, è emerso proprio per queste differenze. La reputazione di un brand rischia di essere danneggiata a lungo a causa di un epic fail del genere.
Il caso Pandora
Siamo nel 2017 e Milano è già dominata da un’atmosfera natalizia. Da un giorno all’altro la metropolitana più trafficata d’Italia viene tappezzata con una nuova campagna pubblicitaria firmata Pandora. Le maxi affissioni riportate nei punti più strategici della metropolitana milanese, riportano questo testo:
«Un ferro da stiro,
un pigiama, un grembiule,
un bracciale Pandora.
Secondo te cosa la farebbe felice?»
Qual è stato il risultato?
Le testate giornalistiche online e le piattaforme social iniziano a popolarsi di #PandoraEpicFail e scatti contro la campagna pubblicitaria definita sessista, discriminatoria e antiquata. Le maxi affissioni diventano virali e la nota gioielleria deve fare i conti con le pesanti accuse che ha ricevuto in seguito a questa pubblicità epic fail.

L’intervento difensivo di Pandora è dietro l’angolo, pubblica una lettera che contiene questo messaggio:
“Ciao a tutte, abbiamo continuato a leggere i vostri commenti relativi alla campagna di affissione nella metropolitana di Milano e ci teniamo a condividere con voi il nostro punto di vista. La nostra intenzione era quella di strizzare l’occhio ad alcuni stereotipi che tutte noi conosciamo in maniera ironica e giocosa, assolutamente non offensiva, con il desiderio di regalarvi un sorriso.
In realtà abbiamo visto che estrapolati dal loro contesto alcuni passaggi di questa comunicazione hanno generato interpretazioni opposte al nostro intento, quindi ci scusiamo con tutte coloro che si sono sentite toccate nella loro sensibilità.”
Cosa è andato storto?
Un brand così popolare, che vive principalmente grazie al mercato femminile, non può permettersi di lanciare una campagna pubblicitaria ricca di stereotipi contro i quali le donne lottano da anni. Utilizzare dei cliché così banali e antiquati per spingere un uomo ad acquistare un gioiello Pandora alla propria donna, è stata una mossa che ha fatto storcere il naso a milioni di persone, non solo donne. Purtroppo, nella comunicazione non si può dare la colpa all’utente che interpreta male il messaggio, se il messaggio arriva in maniera sbagliata, il problema è solo ed esclusivamente del brand.
Il caso Nivea
“White is Purity” – già partiamo male – questo è lo slogan della pubblicità epic fail lanciata da Nivea nel 2017 sulla sua pagina Facebook del Middle East. Tradotta letteralmente significa “il bianco è purezza”. Lo slogan testuale è accompagnato da un visual che rafforza ulteriormente il concetto, una donna bianca avvolta da un velo a sua volta bianco. La campagna, definita razzista, ha avuto vita breve ed è stata rimossa nelle 48 ore successive con le scuse ufficiali del brand. NIVEA ammette che il contenuto visivo e testuale della campagna è inadatto e non riflette i valori di inclusività a cui il brand è legato. Ma ormai il danno è fatto.

Qual è stato il risultato?
Nonostante fosse una campagna geolocalizzata, la polemica è stata di carattere globale. Le accuse di razzismo sono arrivate da ogni parte del mondo, persino da media come il New York Times, The Washington Post, la BBC e altri ancora. La campagna pubblicitaria si è rivelata chiaramente come il prodotto di una cultura viziata da pregiudizi, dove il bianco è associato a purezza e bellezza. Imperdonabile soprattutto per un’azienda che si occupa di realizzare prodotti per la bellezza di ogni tipologia di pelle, senza discriminazioni.